Stasera andranno in onda su Rai1 altri due episodi
della serie tv "I Medici – Masters of Florence" diretta
da Sergio Mimica-Gezzan con con Dustin Hoffman, Richard Madden e
Sarah Felberbaum.
Il
clamore si è scatenato fin dalla trasmissione dei primi episodi una
settimana fa. Una delle
più feroci e autorevoli critiche è quella dello storico dell'arte e
scrittore Philippe Daverio che ha definito da nuova produzione Rai
nientemeno che "Crimine contro i beni culturali", facendosi
portavoce di un'opinione a quanto pare condivisa dai più a proposito
della resa sullo schermo di una delle famiglie più celebri della
storia e di un periodo storico decisivo per la cultura occidentale.
I
motivi del flop, perché di questo purtroppo si è trattato, sono
molti: dalla recitazione, al trucco, ma soprattutto alcuni
imperdonabili e grossolani errori storici e filologici che riguardano
anche -ahimè- i costumi di scena disegnati da Alessandro Lai e dalla
Sartoria Tirelli.
Le
risposte alle critiche di alcuni professionisti sono state
altrettanto feroci: c'è chi difende ed esalta le scelte del
costumista, c'è chi giustamente sottolinea che quando si tratta di
fiction i vari professionisti hanno meno "responsabilità
artistica" rispetto ad una produzione per il cinema o per il
teatro: la differenza sta nel pubblico, in questo caso meno
attento alla filologia e molto più attratto da elementi storici
immaginati, non reali.
Senza
voler dunque entrare nel merito della serie tv "I Medici",
questa è indubbiamente un'occasione per riflettere sul ruolo del
costumista nelle varie discipline dello spettacolo e sulla
ricezione del suo lavoro da parte del pubblico.
E
proprio da quest'ultimo è necessario partire.
L'abito
di scena esplicita un valore comunicativo molto forte all'interno
della performance (qualunque essa sia), forse il più forte:
l'involucro di stoffa in cui si presenta l'attore è subito carico di
significato nel momento in cui appare, perché l'abito nella nostra
stessa società è già un linguaggio capace di veicolare moltissime
informazioni, dando talvolta luogo a degli sgradevoli cliché.
Se
dunque lo spettacolo, in quanto esperienza estetica, si configura per
lo spettatore come un'esperienza in cui convergono inevitabilmente
reazioni emotive, reazioni mnemonico-cognitive e stimoli
intellettuali, il costume teatrale diventa oggetto privilegiato per
veicolare questo significato e per mettere in moto questo complesso
sistema di interpretazione ed emozione.
A
questo punto la domanda è: esistono più tipi di pubblico?
Certamente, come esistono persone più inclini alla fiction che al
teatro o viceversa, esistono anche diversi tipi di ricezione del
messaggio passato dal
costume
di scena, e ciò non sempre va di pari passo con il livello culturale
del pubblico in questione, come potrebbe sembrare.
Un
esempio pratico: durante il mio lavoro di guida nelle esposizioni
della Fondazione Cerratelli i
visitatori impazzivano alla vista del costume di Danilo Donati
indossato da Olivia Hussey dal film "Romeo e Giulietta" di
Franco Zeffirelli (1968), perché erano emotivamente legati a
quel film, mentre a volte rimanevano più scettici di fronte agli
abiti disegnati dallo stesso costumista per "Fratello Sole,
sorella luna"(1972). Di contro i bambini erano molto più
attratti da questi ultimi perché la loro attenzione era più
focalizzata verso una conoscenza dell'abito basata sulla loro
percezione tattile, data dalla corda dorata e dalle placche in
metallo applicate sul piviale di Papa Innocenzo III, nel film
interpretato da Alec Guinness.
Costume di Danilo Donati per Romeo e Giulietta di Zeffirelli (1968). Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/ |
Costume di Danilo Donati per Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli (1972). Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/ |
Nelle
mostre espositive e nei magazzini dei musei il costume teatrale e
cinematografico indubbiamente perde parte del suo valore
comunicativo, in questo senso ha bisogno di essere visto sulla scena
o sullo schermo. Come oggetto si
trova a dover affrontare un'evidente mancanza di specificità e
autonomia, poiché, nel suo studio, deve essere sempre trattato nella
sua triplice natura:
come oggetto d'arte, come oggetto storico, e come oggetto
performativo e drammaturgico. Questa peculiarità deve essere
certamente considerata come un'opportunità preziosa di interazione
fra le arti, tuttavia nello specifico il costume teatrale e
cinematografico si ritrova spesso indebolito nella sua terza
accezione, nel suo valore chiave di elemento di scena.
E
dunque il costumista che ruolo ha?
Prima
di tutto, assolutamente, non
quello di storico. E
questo lo sostiene anche Roland Barthes nel suo saggio Le
malattie del costume teatrale (1955),
in cui individua tre “malattie”, tre errori comuni dell'abito di
scena impoverito della sua funzione comunicativa, e la prima è
appunto l'“ipertropfia
della funzione storica”,
ossia l'eccessivo verismo dell'abito di scena che non riesce a
inserirsi nel quadro più globale della messinscena.
Si
deve tener conto che la stessa nascita convenzionale del mestiere del
costumista viene fatta coincidere con l'attore François-Joseph
Talma, il quale alla fine del XVIII secolo scandalizza il pubblico
francese con la sua pretesa di “verità sulla scena” e sulla sua
attenzione, all'epoca assolutamente trascurata, per il costume che
non oggi definiamo “storico”.
Ora,
Barthes parla di costume teatrale, e non cinematografico o men che
mai del costume nella fiction televisiva, ma certamente la prima
conclusione
a cui arriviamo è che al giorno d'oggi con le correnti artistiche
del secolo passato (soprattutto le avanguardie) e con la diffusione
dei nuovi media, dal cinema, alla televisione, a internet, la
fedeltà storica non può essere considerata l'unica
chiave
di lettura dell'abito di scena e della sua valenza comunicativa.
Il
Settecento di "Barry Lyndon" di Stanley
Kubrick non
è il Settecento di "Marie Antoinette" di Sofia Coppola.
Eppure la costumista, Milena Canonero, è la stessa; e non si tratta
solo di una differenza tra le mode di due nazioni (la Francia del
rococò e l'Irlanda degli anni 60 del Settecento), si tratta dei
riferimenti intenzionali, di rimandi artistici di cui un buon
costumista si serve in accordo con il volere di un buon regista, per
dare corpo e carattere ai personaggi e alla storia.
Kirsten Dunst in Marie Antoinette (2006) |
Barry Lyndon, 1975 |
C'è
chi ha fatto sicuramente della ricerca filologica dell'abito il suo
cavallo di battaglia, basti ricordare i nomi di Gino Carlo
Sensani, Piero Tosi, Anna Anni e Franca Squarciapino. Ma se si va
a guardare nello specifico anche in questi esempi illustri salta all'occhio un
dettaglio, il colore, un particolare della foggia che lascia
intendere una volontà precisa di dare a quel costume un suo
carattere, una sua specificità all'interno del disegno
registico e dell'opera stessa.
In
poche parole: tutto è possibile.
Ci
sono dei limiti? Teoricamente no, purché ogni scelta fatta in
merito all'ideazione del costume sia, come abbiamo visto, motivata da
un intento artistico e intellettuale calibrato all'opera a cui lo
stesso costumista va a rapportarsi.
Costume di Piero Tosi per Ludwig di Luchino Visconti (1973). Fonte: Sartoria Tirelli - http://tirellicostumi.com/ |
Anna Anni, costume per il ruolo di Elisabetta I in Maria Stuarda di Schiller, diretta da Zeffirelli (1983). Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/ |
E il
resto? Il resto è affidato al pubblico e al suo gusto personale,
ovviamente influenzato anche dal livello culturale, diverso da
spettatore a spettatore.
Ho
sentito tempo fa un gruppo di signore lamentarsi dei costumi di una
messinscena di "Madama Buttefly", in cui la protagonista si
presentava in pantaloncini e tank top con la bandiera americana (il
regista è Àlex Ollé, lo spettacolo ha debuttato nel
2014, i costumi sono di Lluc Castells). Questo fa capire quanto il
pubblico tenga in considerazione il costume, a torto o a ragione,
perché è legato ad una certa rappresentazione "tradizionale",
o per pregiudizio, o perché semplicemente ha una sua idea di
spettacolo, complici o meno le sue competenze professionali o
intellettuali.
Va
benissimo il puro intrattenimento, l'abito che "fa sognare",
ma occorre avere sempre un'alternativa. Sebbene quindi ognuno
conservi una sua personale opinione a riguardo, è importante
ricordare che negare le potenzialità comunicative dell'abito di
scena (del teatro, dell'opera lirica, della televisione, del cinema,
della danza) equivale a relegare quest'ultimo ad una infelice condizione di
elemento superfluo e inutile decorazione, e ad impoverire e
mortificare la figura del costumista.
Bibliografia di riferimento:
Barthes
R.,
Le malattie del costume teatrale,
in Id. Saggi
critici,
a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 2002, pp. 40-50.
Barthes
R., Il
senso della moda. Forme e significati dell'abbigliamento,
Einaudi, Torino 2006.
Bignami
P., Ossicini C., Il
quadridimensionale instabile. Manuale per lo studio del costume
teatrale,
UTET università, Torino 2010.
Claudia
Fasano
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