martedì 25 ottobre 2016

Costume, costumista e pubblico. Riflessione sulle finalità comunicative dell'abito di scena

Stasera andranno in onda su Rai1 altri due episodi della serie tv "I Medici – Masters of Florence" diretta da Sergio Mimica-Gezzan con con Dustin Hoffman, Richard Madden e Sarah Felberbaum.
Il clamore si è scatenato fin dalla trasmissione dei primi episodi una settimana fa. Una delle più feroci e autorevoli critiche è quella dello storico dell'arte e scrittore Philippe Daverio che ha definito da nuova produzione Rai nientemeno che "Crimine contro i beni culturali", facendosi portavoce di un'opinione a quanto pare condivisa dai più a proposito della resa sullo schermo di una delle famiglie più celebri della storia e di un periodo storico decisivo per la cultura occidentale.
I motivi del flop, perché di questo purtroppo si è trattato, sono molti: dalla recitazione, al trucco, ma soprattutto alcuni imperdonabili e grossolani errori storici e filologici che riguardano anche -ahimè- i costumi di scena disegnati da Alessandro Lai e dalla Sartoria Tirelli.
Le risposte alle critiche di alcuni professionisti sono state altrettanto feroci: c'è chi difende ed esalta le scelte del costumista, c'è chi giustamente sottolinea che quando si tratta di fiction i vari professionisti hanno meno "responsabilità artistica" rispetto ad una produzione per il cinema o per il teatro: la differenza sta nel pubblico, in questo caso meno attento alla filologia e molto più attratto da elementi storici immaginati, non reali.
Senza voler dunque entrare nel merito della serie tv "I Medici", questa è indubbiamente un'occasione per riflettere sul ruolo del costumista nelle varie discipline dello spettacolo e sulla ricezione del suo lavoro da parte del pubblico.
E proprio da quest'ultimo è necessario partire.
L'abito di scena esplicita un valore comunicativo molto forte all'interno della performance (qualunque essa sia), forse il più forte: l'involucro di stoffa in cui si presenta l'attore è subito carico di significato nel momento in cui appare, perché l'abito nella nostra stessa società è già un linguaggio capace di veicolare moltissime informazioni, dando talvolta luogo a degli sgradevoli cliché.
Se dunque lo spettacolo, in quanto esperienza estetica, si configura per lo spettatore come un'esperienza in cui convergono inevitabilmente reazioni emotive, reazioni mnemonico-cognitive e stimoli intellettuali, il costume teatrale diventa oggetto privilegiato per veicolare questo significato e per mettere in moto questo complesso sistema di interpretazione ed emozione.
A questo punto la domanda è: esistono più tipi di pubblico? Certamente, come esistono persone più inclini alla fiction che al teatro o viceversa, esistono anche diversi tipi di ricezione del messaggio passato dal
costume di scena, e ciò non sempre va di pari passo con il livello culturale del pubblico in questione, come potrebbe sembrare.
Un esempio pratico: durante il mio lavoro di guida nelle esposizioni della Fondazione Cerratelli i visitatori impazzivano alla vista del costume di Danilo Donati indossato da Olivia Hussey dal film "Romeo e Giulietta" di Franco Zeffirelli (1968), perché erano emotivamente legati a quel film, mentre a volte rimanevano più scettici di fronte agli abiti disegnati dallo stesso costumista per "Fratello Sole, sorella luna"(1972). Di contro i bambini erano molto più attratti da questi ultimi perché la loro attenzione era più focalizzata verso una conoscenza dell'abito basata sulla loro percezione tattile, data dalla corda dorata e dalle placche in metallo applicate sul piviale di Papa Innocenzo III, nel film interpretato da Alec Guinness.
Costume di Danilo Donati per Romeo e Giulietta di Zeffirelli (1968). Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/

Costume di Danilo Donati per Fratello sole, sorella luna di Zeffirelli (1972).
Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/

Nelle mostre espositive e nei magazzini dei musei il costume teatrale e cinematografico indubbiamente perde parte del suo valore comunicativo, in questo senso ha bisogno di essere visto sulla scena o sullo schermo. Come oggetto si trova a dover affrontare un'evidente mancanza di specificità e autonomia, poiché, nel suo studio, deve essere sempre trattato nella sua triplice natura: come oggetto d'arte, come oggetto storico, e come oggetto performativo e drammaturgico. Questa peculiarità deve essere certamente considerata come un'opportunità preziosa di interazione fra le arti, tuttavia nello specifico il costume teatrale e cinematografico si ritrova spesso indebolito nella sua terza accezione, nel suo valore chiave di elemento di scena.
E dunque il costumista che ruolo ha?
Prima di tutto, assolutamente, non quello di storico. E questo lo sostiene anche Roland Barthes nel suo saggio Le malattie del costume teatrale (1955), in cui individua tre “malattie”, tre errori comuni dell'abito di scena impoverito della sua funzione comunicativa, e la prima è appunto l'“ipertropfia della funzione storica, ossia l'eccessivo verismo dell'abito di scena che non riesce a inserirsi nel quadro più globale della messinscena.
Si deve tener conto che la stessa nascita convenzionale del mestiere del costumista viene fatta coincidere con l'attore François-Joseph Talma, il quale alla fine del XVIII secolo scandalizza il pubblico francese con la sua pretesa di “verità sulla scena” e sulla sua attenzione, all'epoca assolutamente trascurata, per il costume che non oggi definiamo “storico”.
Ora, Barthes parla di costume teatrale, e non cinematografico o men che mai del costume nella fiction televisiva, ma certamente la prima
conclusione a cui arriviamo è che al giorno d'oggi con le correnti artistiche del secolo passato (soprattutto le avanguardie) e con la diffusione dei nuovi media, dal cinema, alla televisione, a internet, la fedeltà storica non può essere considerata l'unica chiave di lettura dell'abito di scena e della sua valenza comunicativa.
Il Settecento di "Barry Lyndon" di Stanley Kubrick non è il Settecento di "Marie Antoinette" di Sofia Coppola. Eppure la costumista, Milena Canonero, è la stessa; e non si tratta solo di una differenza tra le mode di due nazioni (la Francia del rococò e l'Irlanda degli anni 60 del Settecento), si tratta dei riferimenti intenzionali, di rimandi artistici di cui un buon costumista si serve in accordo con il volere di un buon regista, per dare corpo e carattere ai personaggi e alla storia. 

Kirsten Dunst in Marie Antoinette (2006)
Barry Lyndon, 1975
C'è chi ha fatto sicuramente della ricerca filologica dell'abito il suo cavallo di battaglia, basti ricordare i nomi di Gino Carlo Sensani, Piero Tosi, Anna Anni e Franca Squarciapino. Ma se si va a guardare nello specifico anche in questi esempi illustri salta all'occhio un dettaglio, il colore, un particolare della foggia che lascia intendere una volontà precisa di dare a quel costume un suo carattere, una sua specificità all'interno del disegno registico e dell'opera stessa.
In poche parole: tutto è possibile.
Ci sono dei limiti? Teoricamente no, purché ogni scelta fatta in merito all'ideazione del costume sia, come abbiamo visto, motivata da un intento artistico e intellettuale calibrato all'opera a cui lo stesso costumista va a rapportarsi


Costume di Piero Tosi per Ludwig di Luchino Visconti (1973). Fonte: Sartoria Tirelli - http://tirellicostumi.com/
 
Anna Anni, costume per il ruolo di Elisabetta I in Maria Stuarda di Schiller, diretta da Zeffirelli (1983). Conservato presso: Fondazione Cerratelli. Fonte: https://www.europeana.eu/
E il resto? Il resto è affidato al pubblico e al suo gusto personale, ovviamente influenzato anche dal livello culturale, diverso da spettatore a spettatore.
Ho sentito tempo fa un gruppo di signore lamentarsi dei costumi di una messinscena di "Madama Buttefly", in cui la protagonista si presentava in pantaloncini e tank top con la bandiera americana (il regista è Àlex Ollé, lo spettacolo ha debuttato nel 2014, i costumi sono di Lluc Castells). Questo fa capire quanto il pubblico tenga in considerazione il costume, a torto o a ragione, perché è legato ad una certa rappresentazione "tradizionale", o per pregiudizio, o perché semplicemente ha una sua idea di spettacolo, complici o meno le sue competenze professionali o intellettuali.
Va benissimo il puro intrattenimento, l'abito che "fa sognare", ma occorre avere sempre un'alternativa. Sebbene quindi ognuno conservi una sua personale opinione a riguardo, è importante ricordare che negare le potenzialità comunicative dell'abito di scena (del teatro, dell'opera lirica, della televisione, del cinema, della danza) equivale a relegare quest'ultimo ad una infelice condizione di elemento superfluo e inutile decorazione, e ad impoverire e mortificare la figura del costumista.


Bibliografia di riferimento:

Barthes R., Le malattie del costume teatrale, in Id. Saggi critici, a cura di Gianfranco Marrone, Einaudi, Torino 2002, pp. 40-50.

Barthes R., Il senso della moda. Forme e significati dell'abbigliamento, Einaudi, Torino 2006.

Bignami P., Ossicini C., Il quadridimensionale instabile. Manuale per lo studio del costume teatrale, UTET università, Torino 2010.

Claudia Fasano

Nessun commento:

Posta un commento